(segue da Part 4)
Sveglia all’alba come ormai nostro costume.
Dobbiamo fare ancora un giro del Serengeti e poi cominciare il lungo tragitto verso il cratere di Ngorongoro di cui ci hanno detto meraviglie e la strada è la stessa dell’ andata: la terrificante polveriera disseminata di cunette.
Mi sa che ho respirato troppa polvere e comincio a sentire la sensazione di sabbia in gola che ,di per sè, è brutto segno, ma penso da sempre che l’asma si combatta con la forza di volontà (e un giorno o l’altro ci lascio il calzino!) e siccome non mi voglio abbattere e devo ancora vedere molti leoni e scene di caccia decido di imbottirmi di buon Bentelan e di indossare una mise adeguata.
Sembro l’uomo invisibile.
Siamo subito accontentati: famiglia di leoni, probabilmente quelli del giorno prima (ho il sospetto che ce li mettano di prima mattina!) .
Sono almeno 6 e stanno facendo un pò di corsetta mattutina dietro a un paio di gazzelle, ma più per teneresi in forma che altro.
Il leone si stacca dal gruppo e avanza verso di noi.
Lui sarà anche abituato,come no, ma io mica tanto e l”idea che resti comunque un leone libero non mi abbandona nemmeno per un attimo.
Si accuccia pesantemente a un metro dalla macchina e lì rimane a fissarci e mostrare il miglior profilo,mentre le leonesse gli procurano la colazione.
Ho voglia di dirgliene quattro a sto maschilista indolente e mollaccione!
Fa un caldo sempre più assurdo, ringrazio Dio di non essere nata giraffa, è una vita di merda quella della savana, come dice il proverbio : che tu sia leone o gazzella la mattina quando ti alzi comincia a correre!
Non un minuto di pace, sei sempre il ansia, sempre lì con l’orecchio teso anche quando dormi,pronto a scappare, a salvarti la pellaccia,per non parlare dei cuccioli che, se ce li hai, ti tocca comunque sacrificare a madre natura.
Fadhili è soddisfatto, sta andando tutto come piace a lui, finchè, più tardi lungo la strada….
“Ma… è un altro leopardo quello?” lo sento esclamare…
E che 2 coglioni con ’sti leopardi adesso! Ma non c’è altro in questa savana? Che ne so un cane, un cervo,un coniglio, qualcosa che non vedo da 6 giorni!
“Dovreste giocare alla lotteria voi due, anzi quasi quasi vengo in Italia con voi!”
Eh sì, faresti proprio un bell’affare…
Il più bello dei 4 (Quattro!) avvistati in 2 giorni, seduto a cavalcioni sull’albero proprio a 2 passi da noi che approfittiamo della brevissima solitudine per sparargli una raffica di foto.
Tempo 4 secondi ecco una fila di jeep che ci si accoda dietro e l’urlo di un fiorentino squarcia il magico silenzio: “OICCHEC’E'LAGGIU’????”
Passaporto prego! STRAAAAAAPPPP!
L’urlo nel frattempo ha fatto sì che il nostro amico scendesse e andasse a nascondersi sotto le frasche rendendosi totalmente invisibile.
Il gruppo dietro comincia ad esprimere scontento, una voce su tutte, quella del fiorentino: “Ma guarda che stronzo!”
A un leopardo??
Li lasciamo lì a bestemmiare e ce ne andiamo segnando sulla nostra schedina di avvistamento il quarto punto!
E cominiciamo la lunga, infinita, terribile strada per Ngorongoro.
Avanziamo per chilometri e chilometri,aprendo e chiudendo il finestrino per evitare la polvere ogni volta che incrociamo un’altra macchina, più o meno ogni 2 minuti.
Sono sempre vestita come l’uomo invisibile,sento che morirò, ma lo farò con onore.
Dopo circa 4 ore di viaggio, Fadhili ci porta alla Gola di Olduvai, il sito archeologico dove furono ritrovati i resti dell’Australopitecus Boisei.
Il tizio che ci fa da guida è scazzato come più non si può, e lo capisco, penso che ripeta le stesse cose ogni quarto d’ora da vent’anni.
Fra le parole mi sembra di leggere un impercettibile: “vi prego uccidetemi!”.
Ci spiega innanzitutto che non si dice Olduvai, ma Oldubai, dalla parola masai che indica la pianta curativa, ma che i primi scopritori tedeschi avevano capito male.
Questa cosa gli rode tantissimo e ce la ripete almeno 4 o 5 volte: Oldu-BAAAI.
Me ne faccio un punto di onore e gli prometto di battermi per la giusta divulgazione del nome una volta tornata a casa.
Voglio comprarmi una maglietta, ma costa 15 dollari, mi sembra un pò esoso.
Mentre giriamo nel minuscolo museo attiguo ,dove sono esposti i resti archelologici, un italiano si offre di tradurre al proprio gruppo le didascalie scritte in inglese, cosa di per sè carina se: conoscesse l’inglese ed evitasse di urlare, dato che ci sono altre 50 persone tutte palesemente madrelingua.
Quando traduce “the heel print” (l’impronta del tallone) con “l’impronta del collo” ho un mancamento!
Scusa, me la faresti vedere l’impronta del collo? No,sai così, sono curiosa!
Ripartiamo sempre più a pezzi.
La strada pare davvero non finire mai, il respiro mi si fa sempre più corto, se trovo una penna Bic mi ci faccio volentieri una tracheotomia.
Non vedo l’ora di cominciare a salire verso Ngorongoro, perchè a 2000 metri finalmente potrò respirare.
La strada per il cratere di Ngorongoro è di povere rossa, la vegetazione è rigogliosa e intensa, probabilmente piove molto, cominciando a salire, l’aria si fa più fresca, ma non mi basta, ho una temperatura interna prossima alla fusione del tungsteno, voglio tuffarmi in un laghetto ghiacciato.
Il lodge è ancora più bello degli altri se è possibile, è una specie di chalet in cima al nulla e domina la caldera.
E’ intimo e accogliente e misteriosamente decorato con lampade di murano.
Non ci sono babbuini stronzi e la vista che si gode dalla nostra camera è pazzesca.
Fa freddino,per fortuna, e scendendo a cena decidiamo, in vista dell’ultimo giorno, di offrirci una bottiglia di vino Sud Africano.
Invitiamo Fadhili a bere con noi, ma lui deve aiutare un amico con la macchina rotta lassù nel nulla.
Non si è fermato 5 minuti dall’inizio, si accontenta di una gazzosa e ci saluta.
Mentre ceniamo dietro di me riconosco una voce familiare.
E’ il fiorentino che si è perso il leopardo e che sta parlando male dei vegetariani.
Aziono il parabolone e lo sento pontificare sulla mancanza di energia di chi si sottopone a un tale tipo di dieta mentre si strafoga di torta di marzapane.
Ho una voglia pazza di fargli sgambetto mentre mi passa accanto, ma mi limito a domandargli: “Scusa ma tu sei toscano?”
“Di Prato!” risponde orgoglioso.
Aaaahhhh!
Scopro che non hanno visto nemmeno un leopardo (he he ! 4…QUATTRO!) e che sono 3 coppie che non si conoscevano prima e dai loro occhi capisco che non si rivedranno mai più.
Sono 3 coppie carine, ma che non hanno assolutamente niente in comune: a una piace fare shopping, agli altri alzarsi tardi e i terzi forse volevano andare solo a Zanzibar.
Si avvertono i piccoli malumori, i non detti, e la certezza di aver sbagliato vacanza.
Attilio di nuovo mi guarda e mi sussurra: “Ricordati!”
Mi ricorderò!
La mattina dopo alle 5 siamo in piedi, è un freddo porco, in piedi solo 2 giapponesi che tentano di fare delle foto notturne dalla terrazza che affaccia sul cratere.
Lei ha le infradito.
Dobbiamo cominciare la discesa nel cratere dove tutti sperano di vedere il quinto “big”: il rinoceronte.
E’ troppo presto per la colazione e non torneremo per il pranzo per cui ci danno 2 lunch box a testa contenenti esattamente: 1 uovo, una salsiccia, un pezzo di torta, un pezzo di pollo,un pezzo di pancetta, un succo di frutta e una banana.
Non ne posso più di mangiare banane e pane, e Attilio ha delle sfumature giallastre.
Il cratere è come un immenso recinto pianeggiante che abbraccia tutti i tipi di vegetazione: dal laghetto salato coi fenicotteri rosa a quello d’acqua dolce con gli ippopotami, alla steppa bruciata dal sole, alle colline verdi.
La sensazione però è che tu continui a girare intorno a caso per percorsi prestabiliti, incrociando continuamente altre macchine, dove gli autisti si salutano e si dicono (o non dicono) cosa hanno visto, mentre i turisti affacciati al tetto fanno finta di non vedersi.
Voglio vedere i leoni capelloni, ma oggi sono tutti lontanissimi, e presi a corteggiare le loro compagne.
Il corteggiamento in realtà consiste nello stare sdraiato nascosto da un sasso, mentre lei lo guarda con gli occhi dolci.
Dio che fastidio!
Giriamo da due ore e il freddo intensifica, siamo sempre fermi e con le manine attaccate al tetto della jeep, ho addosso tutto quello che ho : un cappelo, un pile, un giacchettino, 3 magliette a maniche lunghe e una giacca a vento.
E batto i denti.
Fad sente che non vedremo rinoceronti, e con una punta di rammarico ci suggerisce di fare un altro giro e tornare verso la cima per poi cominciare la lunga discesa verso Arusha.
Rassegnati accettiamo.
Torneremo a vedere il rinoceronte prima o poi.
L’ultimo big che vediamo è questo bel ragazzone di circa 70 anni.
Un elefante in pensione che si è ritirato quassù dove l’erbetta è più morbida e dove può campare sereno gli ultimi anni della sua vita indisturbato.
Cominciamo a scendere verso la civiltà dopo giorni e giorni di silenzio e natura, con l’unico scopo di comprare qualche souvenir per la famiglia, prelevare al bancomat la mancia per il nostro benefattore e aggiungere una bottiglia di vino, ignari del fatto che il peggio sta per arrivare.
Fad non sa un cazzo di shopping, lo sgamo subito, e ci accompagna in uno dei tanti negozi sulla strada che vendono esattamente le stesse cose: quadri colorati, coperte masai, statuette di giraffe e maschere.
Vi dice qualcosa vero? A Firenze le vendono sui Lungarni, a Roma in Piazza Vittorio, è il finto artigianato fatto in serie per i turisti, ma che qui da noi costa la metà.
Fad dice che il prezzo è “cheap”,ma che devo contrattare e comincio a chiedermi che idea si sia fatto dell’Italia dato che il primo prezzo che mi sparano per una giraffa di teak di 30 centimetri è di 80 dollari!
Gli rido in faccia!
Sono pazzi, fingono di voler contrattare quando ci stanno solo prendendo per il culo.
Odio discutere sul prezzo, è inutile, ridicolo e penoso, non ho idea di che cifra chiedere dato che è un furto comunque.
Dei 3 oggetti che ho scelto non mi piace più niente, il tizio mi vuole affibbiare un ippopotamo d’ebano per la modica cifra di 298 dollari fatto bene.
Mi sento quasi offesa, non si fa così, ci dicono che “c’è la crisi” e che non si mangia, rispondo che c’è la crisi anche per noi e che in Italia si trovano gli stessi oggetti a un quarto del prezzo. Mi chiede ancora di fare un prezzo: giraffa piccola, 3 piattini di legno, ippopotamino: dico 10, 15,10, mi sembra già troppo, ma lui mi dice che ogni piattino di legno me lo fa 23 dollari (fatto bene).
Comincio a stufarmi, ho caldo e non voglio più niente.
Allora cambiano tattica e ci separano, uno dei 2 tizi mi prende in disparte per farmi il fervorino sul concetto di domanda e offerta, gli dico che non c’è problema facciamo che non me lo posso permettere e rimaniamo amici, faccio per andarmene.
Attilio esce un pò frastornato e mi fa: “Gli ho detto che li prendiamo per 55 dollari!”
“CHE CAZZO GLI HAI DETTO?” tuono girando la testa di 360 gradi.
Rilancio incazzata nera “50 dollari con la coperta masai!” sono una iena.
Molti no, si, no, e tira e molla dopo, un tizio si è sente dovere di farmi sentire in colpa circa la povertà dei Masai.
Me lo sono magnato! Il prossimo che mi fa un fervorino sulla povertà dei Masai lo mando insieme a Kimani a fare il giro in piroga.
E gli ho ricordato di quel Masai miliardario che ha 400 figli a cui il governo ha costruito appositamente una scuola.
Perchè ..ve l’ho detto che sono poligami no?
Non ha fiatato, abbiamo girato i tacchi e ce ne siamo andati.
Secondo negozio stessa scena.
Entri ti danno il panierino per la spesa, gli oggetti sono gli stessi, ma non hanno il prezzo sotto per cui ogni volta devi chiedere e sentirti dire cifre assurde poi, a seconda delle cose che compri ti applicano un finto sconto.
Forse gli americani ci cascano, ma gli italiani no.
E’ un gioco insopportabile, mettete i prezzi e non rompete i coglioni.
Non compriamo niente, c’è il rischio che tornati a casa gli amici mi dicano: bella questa giraffa l’hai presa a Campo dei Fiori?
Rientriamo lentamente verso Arusha, il traffico è pazzesco, ce n’eravamo scordati, ci mettiamo un’ora a fare 3 chilometri.
Il nostro piano prevede andare in albergo, preparare le valige, farci la doccia, andare al bancomat, comprare il vino in un’enoteca lì vicino, qualche braccialetto, cenare in una tavola calda tanzaniana e poi ,appoggiarci un attimo in camera, in attesa di Fadhili che viene a prenderci a mezzanotte per portarci in aeroporto.
Il bancomat risulta l’impresa più ardua da affrontare,non ne funziona uno.
Ma peggio di tutti, il Safari mi ha resettato la memoria a breve termine e non mi ricordo più il pin.
Scrivo inutilmente sequenze di 5 numeri senza che nessuna mi suoni lontanamente familiare.
Sono nel panico.
Se Attilio non può prelevare col suo faremo la figura di merda del secolo.
Infatti 3 sportelli più tardi non siamo ancora riusciti a prelevare uno shellino.
Ecco che miracolosamente l’ultimo bancomat di Arusha ci dà l’opzione prelievo, la coda dietro è improvvisamente quadruplicata e tutti ci fanno fretta.
Non è chiaro quale bottone premere :cash advance, withdrawal, fast cash, ma che cazzo ne so, datemi i soldi!
I tagli disponibili sono inferiori a quello di cui abbiamo bisogno, ma non possiamo rischiare di prendere troppi scellini perchè poi non possiamo cambiarli.
Premiamo il massimo: 80000 che equivale a circa 50 dollari : un cazzo! Ce ne servono almeno 200, ma misteriosamente ne escono 150.000!
Non ho mai visto una cosa del genere, riproviamo: stessa cosa, boh! Non facciamoci domande.
Creatività africana.
All’albergo ci ridanno la stessa camera dell’andata: la 404, il cesso perde sfacciatamente, ma ormai non ci facciamo più caso, anzi c’è una certa aria di familiarità.
Facciamo la doccia e poi andiamo verso l’enoteca (sì, appunto, c’è il Masai povero col cellulare, la signora che vende le patate per terra e l’enoteca francese…) esattamente là a 200 metri dall’albergo dove Fadhili la prima volta ci disse: “non correte rischi inutili e prendete un taxi!”
Ma siamo cambiati,non sembriamo più così turisti, Mario e Pippo non sono più così sprovveduti e ci lanciamo a testa alta verso la nostra meta.
All’enoteca ci accoglie un signore francese (tale Michel) con cui mi metto a chiacchierare, ci racconta la sua vita, ci presenta il socio e la moglie e ci invita ad assaggiare un pò di vini.
Vivono lì da 15 anni e sembra un film: ascoltiamo Aznavour, beviamo Bordeaux e per l’occasione apre una forma di Parmigiano Reggiano.
Serendipity totale!
Adoro le persone che fanno scelte così estreme,li ascolterei per ore, mi affascinano, li trovo bohémien e romanticamente decadenti.
Solitudini che si uniscono per dare uno scopo diverso a vite meccaniche e prestabilite, per uscire dal coro e ritagliarsi un pezzo di normalità dalla Bretagna alla Tanzania.
Una scelta ponderata e difficile, ma con uno scopo preciso: via dalla pazza folla.
In fondo al cuore quel costante amore - odio per la patria, quel non essere riusciti fino in fondo a resistere o non averlo veramente voluto.
Chissà.
Ci regalano del vino e ci congediamo verso l’ultima ,estenuante, contrattazione a una bancarella di braccialetti jamaicani.
Li faccio neri (se mi consentite il gioco di parole) partono da 3 dollari per 5 e me ne accaparro 10 per un dollaro.
Poi torno a Roma e me li vendo a 5 euro l’uno!
La tavola calda è già chiusa (sono le 8.30!) non ci resta che tornare all’albergo e cenare di nuovo al ristorante indiano musulmano dove stazionano gruppi di studenti americani in infradito e maglietta, totalmente a loro agio, credo che facciano parte di qualche gruppo di studio, e alloggiano all’ostello sopra il nostro,ma non ci è dato capire di più.
Siamo tristissimi all’idea di partire e la nottata è ancora lunga.
L’asma è talmente peggiorata che mi sdraierei in una camera iperbarica.
La notte Fadhilil ci viene a prendere. Abbiamo il musino lungo.
Gli abbiamo regalato il vino, il binocolo e una lettera.
Lui si commuove, è contento di essere stato con noi, dice: “I’ll miss you guys!”
“We’ll miss you too Fadhili!”
E via al primo di una lunga serie di controlli di passaporto rigidissimi.
Si accertano innnanzitutto che non gli abbiamo rubato il lavoro tramite domande a trabocchetto e ci vivisezionano bagaglio e passaporto.
Siamo già in coda con gruppi di italiani non simpatici che parlano al solito a voce troppo alta per farsi sentire. C’è anche un prete panzone con la faccia viscida che mi dà i brividi.
Abbiamo ancora 10000 scellini, e andiamo a farci la birretta della staffa, tanto si parte alle 4!
Davanti al bar ,un negozietto ancora aperto con le solite giraffe, le magliette e i braccialetti.
Artigianato locale eh?
Dico alla signora che abbiamo ancora da spendere 8000 scellini e lei dice che sono moltissimi! e che posso scegliere quello che mi pare.
Se lo dice lei, scelgo un piatto di legno (che mi era rimasto qui!) e lei mi guarda come dire: “Sì ma mò nun esaggerà!”
Me ne porto via uno per 8500, circa 6 dollari.
E’ l’affare del secolo.
Si parte, ho il polmone destro collassato.
Arriviamo all’aeroporto di Addis Abeba e dobbiamo aspettare 6 ore e mezzo!
Respiro come un orso, ho bisogno di andare in bagno, ma è talmente lurido che non me la sento.
Mi accaparro una copertina della Ethiopian Airline che sembra l’ultimo trend,tutti la sfoggiano a mò di pareo, gonna, turbante e marsupio.
Facciamo colazione. L’ultimo uovo con salcicca.
Attilio mi stupisce mangiando un pezzo di burro intero. Minaccio di lasciarlo.
Finalmente partiamo.
Vedo 2 bambini con i genitori sprovveduti che stanno già facendo troppo casino per i miei gusti.
I genitori non trovano niente di meglio per distrarli che mostrare loro cani invisibili!
“Guarda quel cane bianco!”
Ma dove??
I 2 bambini cominciano a urlare ininterrottamente per tutto il volo, strilli acutissimi e feroci che sorpassano il boato del 747.
La gente è scioccata, tutti indossano le cuffie, i 2 stronzetti non smettono di piangere MAI.
E’ ufficiale non voglio figli.
Atti guarda fuori e mi dedica la scritta sull’ala.
Romanticone.
Io ordino da bere e chiedo il pasto Veg.
Che è ottimo come quello dell’andata.
Atterriamo a Fiumicino e aspettiamo i bagagli per un’ora e 3 quarti.
Fuori è umido, caldissimo e più incasinato di Arusha.
Il tassista è autistico, ogni tanto ha degli scatti tipo sindrome della Tourette e non ci parla mai.
Entriamo in casa, è tutto come prima: casa pulita, testamento sul tavolo, e i nostri bagagli luridi per terra.
Ma siamo noi ad essere un pò diversi.
Ci manca tutto, abbiamo davvero il Mal d’Africa, e vorremmo già ripartire.
Scendiamo a prenderci una pizza, alziamo le birre e brindiamo alla salute di Fadhili.
Grazie Tanzania!
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