Il motivo per cui non dico mai alle persone conosciute da poco che di mestiere faccio lo scrittore, ma che lavoro nel ramo assicurativo è perché ogni volta, e giuro ogni volta, si ripete sempre la stessa scena e non so se succeda solo a chi scrive, o a chiunque si guadagni da vivere in ambito artistico.
Ho provato, negli anni, a modificare leggermente l’informazione dal “sono una scrittrice” al “faccio la scrittrice”, a un più pragmatico “scrivo libri di lavoro”, ma ultimamente ho notato che la versione maschile (“lo scrittore”) aggiunge un pelo di credibilità in più alla già scarsissima che ci viene riconosciuta attraverso l’etichetta “letteratura rosa”.
Lo scrittore maschio scrive cose serie, le femmine, al più, si possono inventare qualche combinazione nuova fra Principe Azzurro e Cenerentola.
Ma andiamo per gradi.
Una volta che ho rivelato la mia professione, la prima reazione dell’ interlocutore è “Ah bello!” e io sorrido annuendo, perché, sì, è bello davvero quello che faccio, ed è come se mi dicessero che mio figlio è bello e non posso nascondere il mio immenso orgoglio, anche se ci provo per non sembrare immodesta.
Per cui in quei secondi che separano la prima dalla seconda domanda immagino, ingenuamente, che l’altro abbia capito che io faccio quello di lavoro e non come hobby, invece nella sua testa ha già cominciato a giocare a quello che chiamo “asseconda il matto” e sta pensando sempre sorridendomi: “Okay stai tranquilla, va tutto bene, adesso ti accompagno in camera che è l’ora delle medicine” mentre io mi cullo nella pia illusione che mi consideri una persona normale che, incidentalmente, per vivere scrive.
Beh no.
Sono una povera pazza che fa tutt’altro e che vorrebbe tanto scrivere un libro o magari ne ha uno nel cassetto, però dice di fare la scrittrice per darsi un tono o perché magari, ripetendolo, potrebbe avverarsi, come ha letto in The Secret.
Per come la vedo, uno fa il lavoro che gli permette di mantenersi, punto.
Se uno fa il dentista, ma ha una passione per la pittura, fa il dentista, perché di quello campa.
Poi se un giorno molla tutto e diventa Picasso, quello sarà il suo lavoro, altrimenti è come la classica scena del cameriere della tavola calda di Los Angeles che, mentre serve il caffè al cliente, dice “comunque io sono un attore”.
Probabilmente un giorno lo diventerà, ma oggi no!
Quindi se uno mi dice “sono un ballerino” o “un cantante”, do per scontato che viva di musica o di danza.
Ma se invece dici di fare lo scrittore e lo fai davvero, sei solo un mitomane.
Ma io in questo momento ancora non so che chi ho di fronte mi sta giudicando tale, e che sta contando le goccine da mettermi sotto la lingua, e sono ancora lì che sorrido come una scema, sperando con tutto il cuore che non si verifichi la seconda scena che mi conferma quanto appena detto.
“E hai già scritto un libro?”
ALE’!
No, figurati ma mi piace vedere l’effetto che fa quando lo dico alla gente!!
Ma secondo te???
E lì capisco che ho fatto ancora la cazzata, che mi dovevo mordere la lingua, che non imparo mai eccetera eccetera…
“Sì, ne ho scritti diversi” rispondo guardando altrove alla ricerca disperata di una via di fuga.
A questo punto, la persona davanti a me potrebbe ancora recuperare dicendomi qualcosa del tipo, “chissà com’è stato difficile, oppure, ma che soddisfazione” invece no, si passa alla terza scena, come da copione che mi conferma che siamo ancora nel pieno del gioco del matto, per cui segue:
“Ma hai già un editore?”
E su questo giuro, che devo contenere la follia omicida scatenata dal mio ego ferito, perché lì ti stanno palesemente prendendo per il culo, ti stanno dicendo senza parafrasare: “se vabbè povera scema, mò però falla finita di darti delle arie che adesso ci penso io riportarti a terra!”
Ma guai a sciorinare due righe di curriculum perché a quel punto passi dalla parte dell’ “artista isterica” (donna ovviamente!) che diventa un tutt’uno con il vecchio adagio “lei non sa chi sono io!! Dov’è il mio autista che voglio andarmene!”.
Per cui niente, rimango lì, stoica, mantenendo un dignitoso contegno, mentre sto sentendo i carboni ardenti bruciarmi le piante dei piedi e vorrei solo andare a casa a mettermi a letto.
“Sì” rispondo, “sono diversi anni che faccio questo lavoro..” tento ancora nel disperato tentativo di essere presa sul serio, ma niente, l’altro strizza gli occhi indagandomi, non ci crede che qualcuno mi abbia mai pubblicato, e se qualcuno lo ha fatto è un nome che non ha mai sentito.
“Allora dimmi un titolo!” butta là e a questo punto la tentazione di rispondere: “L’ amica geniale” si fa irresistibile.
Ora, ahimè mi rendo conto che il fatto che quasi tutti i miei titoli contengano la parola “amore” non giochi troppo a mio favore, poiché questo mi incasella perfettamente nell’ odiata etichetta rosa di cui sopra, per cui, hai voglia a spiegare che nelle mie storie io parli di dolore, difficoltà, lutti, e crescita in modo ironico e intenso, l’altro non vede l’ora di classificarti, e ti liquida con un “ah quindi scrivi libri d’amore”.
Ma questa è un’altra battaglia che è persa dai tempi di Jane Austen e a cui mi sono rassegnata, io adesso sto difendendo il mio onore.
“Sì, anche” rispondo e taccio, perché sento che l’altro comincia ad agitarsi, comincia a sospettare che io non sia pazza come credeva un minuto fa e che io ci campi davvero di quello che faccio e sotto sotto gli si sta smuovendo qualcosa che al momento posso solo definire “fastidio”.
Io allora interrompo il contatto visivo, prendo il cellulare, fingo di leggere qualcosa con interesse, e mentre guardo una gif di un gatto che cade da un tavolo, con la coda dell’ occhio vedo l’altro che si sta arrovellando e sono tentata di buttare là: “Roberto (Saviano) mi fa schiantare quando mi manda questi messaggi!”
Ed eccoci giunti all’ultimo atto, la domanda delle domande, quella che adesso non vorrebbe più farmi perché non vuole la conferma che non sono pazza, né mitomane, ma una che di mestiere fa (davvero) lo scrittore.
“E chi sarebbe il tuo editore?” (quel sarebbe sottintende “quello scriteriato che ha pensato di pubblicarti” ma mi rendo conto che sto interpretando)
“Mondadori!” butto là e qui mi porto a casa il set e ciao.
A questo punto, l’altro fa quello che definisco “The look”.
Ormai è obbligato a prendermi sul serio ed è passato dalla modalità “camicia di forza” a “io ti odio” in un nanosecondo.
Lo sguardo è una specie di impercettibile smorfia generata dal cervello intento a rileggere, suo malgrado, tutte le informazioni che ha su di te, ed è obbligato a dargli un’altra lettura.
Io in quel momento sto già andando a stringere la mano all’arbitro che in tutto questo tempo è stato lì a farsi i selfie.
E ora lo vedo chiaramente il mio avversario che si sta agitando, perché sente che mi sta perdendo e adesso vorrebbe chiedermi chissà quante cose, ma è troppo tardi, e nell’ultimo disperato tentativo di trattenermi lo sento mormorare: “anch’io è tanto che vorrei scrivere un libro”.
Ma a quel punto sono già lontana, e gli sorrido con simpatia, però nell’etimologia greca sympatheia, letteralmente "patire insieme" (Fonte Wikipedia),mentre ripongo l’asciugamano nella sacca e mi dirigo verso gli spogliatoi.
“Uno di questi giorni mi dai un consiglio allora?” sento nel vento, ma ormai è solo rumore di fondo.
E torno alle mie polizze.