Il 28 Novembre del 2008 mi trasferii a Roma.
Stavamo insieme da un anno con Attilio e facevamo i pendolari fra Roma e Firenze una volta per uno.
Tutti e due vivevamo per quei week end, dove organizzavamo al minuto le cose da fare, solitamente il programma prevedeva cena al ristorante il venerdi sera tardi (treno permettendo), il sabato mattina giretto al mercato di Greve in Chianti, pranzo da mia madre, nel pomeriggio giro in centro e aperitivo con gli amici, la domenica mattina colazione coi giornali, pranzo fuori, magari in qualche trattoria in campagna e poi via al treno.
Era durante quei week end che ci conoscevamo, che ci prendevamo le misure, facendo le nostre piccole prove di convivenza, per inciso casa mia è grande 27 metri quadri, con un soppalco così basso che, se ti metti a sedere di scatto, sbatti la testa contro la trave di legno, (successo 2 volte!) e all’ epoca con me vivevano anche i 2 gatti Gurb e Blanche che ti dormivano sulla testa di default, quindi, ecco, il self control era fondamentale.
Va detto anche che Attilio è la persona più paziente del mondo dopo un monaco tibetano, fosse stato un altro che magari, chessò, pretendeva di allargare le braccia per sbadigliare saremmo arrivati alle mani nel giro di 10 minuti!
Gli altri giorni della settimana erano scanditi da telefonate e messaggini, in attesa di un nuovo venerdì carico di aspettative.
Ricordo una di quelle domeniche a pranzo, il cielo coperto, il volgere del week end verso la fine, il silenzio e il tenere d’ occhio l’orologio per arrivare in tempo alla stazione.
E la sentii distintamente arrivare, chiara, lucida e pronta all’ uso: la familiare ansia da distacco, quella sensazione antica e angosciante che provavo sempre da bambina la domenica sera e in innumerevoli altre occasioni.
Quando tutta la gioia e l’aspettativa del “faremo” e “andremo” si erano definitivamente consumate e tu intercettavi quel nervosismo palpabile degli adulti del dover cominciare la settimana che ti si mescolava nella pancia insieme alla paura della scuola e di chissà cos’altro.
E quella bella sensazione di protezione e calore di casa, veniva barattata con l’ ignoto del fuori, la classe, i compiti, l’ umore della maestra. Il mondo.
Tutto improvvisamente diventava grigio e cupo e pesante, e mi vedo ancora con la luce bassa della mia cameretta con la moquette verde, e la carta da parati, che mi sbrigo per finire un tema o una ricerca, e so che non avrò abbastanza tempo e che avrei dovuto farlo prima e che mi sgrideranno e che mi metteranno un brutto voto e tutto mi sembra stonato, pesante e fuori fuoco come un canale in bianco e nero mal sintonizzato.
Solo che all’ epoca quella sensazione non aveva un nome, era solo una cosa spaventosa che arrivava all’ improvviso a gettarti nel pozzo come la strega di notte.
Ed ero ancora troppo giovane per lo Xanax.
Così senza pensarci due volte, guardai Attilio e gli dissi “io credo che dovremmo andare a vivere insieme. Mi sposto io che ho più possibilità di lavorare a Roma!”.
Non so come mi uscì questa frase assolutamente non premeditata, forse la pronunciai in frettissima proprio per mettermi spalle al muro, forse finsi di aver ponderato perfettamente l’ idea. Comunque fosse, la sparai.
Lui mi sorrise (un attimo nel panico) e poi mi disse, che sì, che era una buona idea.
Poi non dicemmo più una parola fino alla stazione.
Nessuno dei due aveva mai convissuto, nessuno dei due aveva la più pallida idea di come sarebbe andata. Nessuno dei due aveva un’idea. Ma eravamo adulti e vaccinati.
E come spesso mi è capitato nella vita, una volta che prendo una decisione non sto a ripensarci più.
Buona la prima.
E il 28 Novembre del 2008 mi trasferii con lui in un appartamento sull’ Appia Nuova.
Avevo deciso che Roma sarebbe stata casa mia, perché avevo 37 anni e un bisogno assoluto di mettere radici che entrassero profonde sotto terra e che mi sostenessero per sempre.
Volevo un posto da chiamare casa quando tornavo da un viaggio, un posto dove passare il Natale e il mio compleanno, un posto dove invitare gli amici che sarebbero diventati i miei amici per sempre, un posto che mi facesse sentire bene.
E decisi che Roma sarebbe stata la mia casa. La nostra casa.
E ne sono stata convinta per 7 anni esatti.
7 anni di risate, di scoperte, di adattamento, di crescita, di sorprese, di capocciate, di lenti in cucina, di mareggiate, di fughe (mie) e di attese pazienti (sue), di salti nel vuoto e navigazione a vista, i 7 anni più belli e importanti della nostra vita.
Quando poi le nostre strade si sono divise, sono rimasta a Roma per un anno da sola.
Roma che ormai conoscevo bene e dove continuavo a fare le stesse cose di sempre.
Ma è stato quando ho chiuso la porta della mia nuova casa che ho veramente capito quanto la mia casa non fosse mai stata Roma, ma quello che avevamo costruito noi due in quei 7 anni.
Che poteva essere Forlì, Londra o Topolinia, poco importa: quello che conta è con chi costruisci, non dove.
E che non poteva bastarmi il tramonto sul Colosseo, la brezza del Ponentino, le passeggiate in Caffarella o la cacio e pepe a trattenermi.
Perché per quanto fosse bello non ero più a casa mia.
E avevo freddo.
E quando siamo rimaste sole io e Roma, abbiamo capito che non avevamo mai avuto niente da dirci, che ci eravamo sopportate, tollerate, ma mai amate veramente, come due coinquiline che hanno abitudini opposte, costrette alla convivenza.
Una strana coppia che però non faceva più ridere.
E che le radici che avevo affondato erano poco più profonde di quelle di un pino marittimo che con un colpo di vento forte vola giù.
Così Il 28 Novembre del 2015, (cioè 7 anni dopo per gli amanti della Kabala), mi sono trasferita a Milano.
Non potevo aspettare che arrivasse il Natale.
La settimana scorsa sono tornata a Roma per lavoro dopo un anno esatto e ho sentito sulla pelle una sensazione strana, triste.
Guardavo la città eterna dal finestrino del taxi, attraversando il solito marasma disumano di traffico e insulti e ripensavo con nostalgia a quando potevo dare un indirizzo al tassista dicendo: “Mi porti in Via Appia Nuova”.
Adesso ero solo una turista come gli altri.
A volte la fine delle cose arriva molto dopo la loro effettiva conclusione, la chiamano elaborazione del lutto.
Quando impari finalmente a convivere col distacco e con l’abbandono.
Anche con l’aiuto dello Xanax.
Sto ancora cercando un posto da chiamare casa quando torno da un viaggio, un posto dove passare il Natale e il mio compleanno, un posto dove invitare gli amici che diventeranno i miei amici per sempre, un posto che mi faccia sentire bene.
Per ora sono qui.